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Il Monte di Lama (m 1.345), baluardo di confine tra la nostra provincia e quella di Parma, è un grosso panettone che, nella forma, ricorda i rilievi isolati dei deserti australiani. La realtà appenninica è tradita da querce e faggi, che offrono un quasi incessante riparo dai raggi del sole, rendendo piacevole l'ascesa. Dalla vetta si ha una bella veduta del dirimpettaio Menegosa, distante 2 km in linea d'aria; girando lo sguardo verso nordest si domina l'alta Val d'Arda, inconfondibile con lo specchio d'acqua del Lago di Mignano. A est si snodano le catene del Parmense a perdita d'occhio.
La sommità del monte è un altopiano leggermente bombato in cui il prato, popolato per tutta la stagione propizia da viole tricolori nella non frequente varietà gialla, è interrotto qua e là da boschetti di faggi. Una croce a traliccio di circa 3 m, un tavolaccio con panche per picnic e pietre annerite dai falò sono la traccia, discreta, lasciata dall'uomo. Non è raro incontrare cavalli e capre; avere con sé qualche boccone di pane faciliterà un simpatico approccio. Essendo il Passo di Linguadà il punto di partenza naturale per l'escursione, è giocoforza per i piacentini recarsi sul posto attraversando Farini e Groppallo.
Passato Farini d'Olmo si prende la direzione di Groppallo, superandone l'abitato e proseguendo fino al Passo di Linguadà, posto a metà strada tra Boccolo della Noce e Boccolo dei Tassi. Il passo, dove si parcheggia, è facilmente riconoscibile per la presenza del la locanda "Serenella" e dei cartelli che indicano la fine della provincia di Piacenza e l'inizio di quella di Parma.
Il sentiero è una carreggiabile per trattori ben evidente alla sinistra della locanda; fa subito la sua comparsa il segnavia rossoblu-rosso che accompagna per tutto il tragitto. La pendenza è morbida e consente un buon riscaldamento delle gambe. Si cammina per dieci minuti senza incertezze, poi si raggiunge un primo bivio (riferimento: un cartello giallo "Consorzio Bardigiano - divieto di raccolta prodotti del sottobosco"); "sempre dritto" è la regola che caratterizza questa escursione. Dopo altri sette minuti si supera un incrocio in cui, al segnavia principale, si aggiunge un cartello del CAI che identifica come 901 il sentiero che si sta percorrendo. Subito la strada si inerpica e mette per la prima volta alla prova i polmoni. L'apparire dei ginepri indica il veloce aumento di quota; sulla destra, un po' dietro le spalle, si scorgono i dintorni di Bòccolo dei Tassi. Quando la salita ha termine (ormai è trascorsa mezz'ora dalla partenza) ci si trova in una faggeta; da quel momento, e per un lungo tratto, si costeggia, tenendola alla propria destra, una recinzione di filo spinato. In primavera le primule contendono il terreno ai bucaneve; sono frequenti anche le genziane e non è impossibile incontrare qualche splendida orchidea.
Dopo un quarto d'ora si è in vista della meta; nello stesso tempo, sulla sinistra, appare la cima del Menegosa. Una leggera discesa conduce, in altri quindici minuti, a un incrocio: ancora diritto, dice il segnavia, per arrivare alla biforcazione principale. Si lascia il sentiero 901, che piega a sinistra e porta al Menegosa, e si varca il cancello di legno a destra; è subito evidente un nuovo cartello del CAI: 905 è il nuovo numero di percorso. Il classico rosso-blu-rosso è, comunque, sempre vigile. Ora si curva con dolcezza verso la vetta (ma il terreno è ancora in piano), mentre sulla sinistra il bosco, anche per il lavoro dei taglialegna, si dirada e scopre il fondovalle.
Si cammina da un'ora e un quarto, l'attraversamento di una mulattiera è il segnale che prelude all'erta conclusiva: la cima è lì, incombente, ma occorre ancora un quarto d'ora di salita ripida tra alberi, poi di fianco a una pietraia, sull'erba, infine ancora tra i faggi, ai quali ci si aggrappa per evitare di scivolare sul friabile terriccio (ma il pericolo è quasi sempre solo quello di sporcarsi; soltanto sporadicamente e per pochi istanti ci si affaccia su dirupi). Il ritorno si sviluppa sulla stessa via; attenzione al terreno incerto che ha caratterizzato il raggiungimento della vetta, perché in discesa è particolarmente infido.
Tratto da "Sentieri Piacentini" di Giorgio Carlevero
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